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30 Luglio 2020
Per un’economia che non separi l’economico dall’umano
21 Gennaio 2021Articolo di Paolo Venturi, Direttore AICCON, pubblicato su Il Sole 24 Ore.
La ri-partenza non è un “pit stop”. Grave sarebbe immaginare questa lunga fase di transizione come una pausa in attesa di riprendere la corsa nello stesso circuito. La realtà è un’altra: la “macchina Italia” per competere deve profondamente trasformarsi, non basterà infatti un semplice cambio gomme pagato dall’Europa, perché usciti dai box della Fase2, il tracciato sarà profondamente diverso. Uscendo dalla metafora potremmo dire che la transizione del nostro Paese sarà possibile solo se saremo capacidi cambiare, di trasformarci.
L’Italia si è dimostrato un Paese avanzato e moderno nelle scelte riguardanti l’emergenza sanitaria ottenendo
così un “vantaggio” in termini di rimbalzo economico. Un vantaggio da non sprecare.
L’autunno sarà un banco di prova sia per la tenuta del Paese che perla qualità della ripartenza. Dovremo abbandonare la proliferazione di bonus ed incentivi a tempo e sostituire la ricerca del “facile consenso” con una fase d’innovazione radicale. Serviranno scelte dettagliate e misurabili in termini d’investimento su industria, capitale umano e transizione ecologica, serviranno energie e intraprendenza, creatività e speranza. Perché ciò possa succede è necessario uscire dalla dicotomia fra “Leviatano dispotico” e “Leviatano assente” descritta da Acemoglu e Robinson nel loro libro “La Strettoia. Come le nazioni posso essere libere” e convincersi che senza l’apporto del “Terzo Pilastro” (leggasi società) e dei giovani, è oggettivamente impossibile generare fiducia.
In base alle simulazioni effettuate da Cdp, si stima che tra il 2021 e i12024 Next Generation EU porterebbe ad un aumento medio annuale del livello del Pil dell’Ue di circa l’1,3% rispetto al Pil atteso. Per l’Italia (destinataria di 205 miliardi di cui ben 77 in sovvenzioni) il beneficio sarebbe ancora più elevato: fino a+3,1%. Numeri significativi, tutti da conquistare in termini di programmazione e rendicontazione, numeri che non ci dicono però nulla della qualità e della sostenibilità dello sviluppo; numeri che non hanno un ancoraggio in termini di inclusione, coesione, innovazione e felicità. Scaricare a terra risorse (premesso che ci si riesca) senza darsi missioni trasformative (poche ma profonde e misurabili) è l’ennesimo prezzo che faremo pagare alle generazioni future.
I titoli delle sfide li conosciamo, ciò che sembra ancora non emergere è il metodo da utilizzare per passare dalle parole ai fatti. Detto in altri termini se la sfida è trasformare la spesa in leva per uno sviluppo sostenibile e inclusivo,diventa necessario uscire dal tokenismo di molti processi decisionali e aprirsi a reali processi partecipativi, percorsi pragmatici per alimentare governance ed ecosistemi (territorializzati) capaci di co-creare missioni. Il prossimo passo non potrà limitarsi a definire soluzioni redistributive, ma dovrà inevitabilmente aprire una nuova fase “contributiva” dove cittadini, lavoratori, imprese e istituzioni possano essere considerati soggetti protagonisti della ripartenza e non oggetti della benevolenza delle istituzioni.
Missioni di lungo periodo in termini di coesione e competizione, misurabili in termini d’impatto sociale. Non credo se ne esca dando indicatori al governo: servono invece “governance” ossia coalizioni di attori che convergono su obiettivi legati ad un futuro desiderato. Abbiamo bisogno di una politica che stimoli conversazioni e non solo consultazioni. La generatività delle risorse europee passerà dalla nostra capacità di costruire alleanze di scopo intorno ad obiettivi radicali, qualificanti e misurabili in termini di posti di lavoro (dignitoso). Politiche che alimentano “interdipendenza” e che partono dalla premessa che lo Stato imprenditore è innanzitutto uno Stato facilitatore e sussidiario.
Sentire parlare di “ponte o tunnel sullo stretto” è sinceramente imbarazzante. La migliore allocazione delle risorse europee non passa dalla soluzione di un “dilemma redistributivo”, bensì “cooperativo”. In termini più espliciti, il successo delle politiche del “dopo” passerà daun’azione inclusiva, collaborativa, una nuova stagione di partecipazione che stimoli la creazione di nuovi contesti. Se è vero che per contrastare alla radice le povertà educative servono “Comunità Educanti” ossia reti fra scuola, istituzioni, terzo settore e famiglie, per rilanciare lo sviluppo servono nuovi ecosistemi, filiere, patti. Un processo questo, che necessita di una forte e diversa intermediazione.
Sembra un paradosso, ma proprio nella società della disintermediazione non mai è mai stata così forte la domanda di intermediari ossia istituzioni e reti capaci di legare l’intelligenza collettiva alle policy, di connettere la giustizia sociale dentro le politiche, di accompagnare gli irreversibili processi d’innovazione digitale. Il ruolo dei corpi intermedidentro questa lunga transizione assumerà un ruolo decisivo nella misura in cui si riusciranno a superare le secchedegli interessi di parte e si inizieràa convergere verso alleanze di scopo (purpose driven). Interdipendenza, intraprendenza e intermediazione: tre parole da riscoprire e rigenerare per una ripartenza condivisa e a prova di futuro.
Fonte: Il Sole 24 Ore