
Da uno studio realizzato da McKinsey, «A brave new world for global banking 2016», si evince come sia in atto una tempesta perfetta caratterizzata dalla presenza di 3 formidabili forze che stanno erodendo i profitti delle banche (si stima una perdita entro il 2020 di quasi un quarto dei profitti pari a 90 miliardi di dollari): la debolezza dell’economia globale, la digitalizzazione e la regolazione. Contrastare queste forze, dice lo studio, richiederà alla maggior parte delle banche d’intraprendere una trasformazione radicale centrata sulla resilienza e il rinnovamento della relazione con i clienti. Mentre la strategia legata alla resilienza è di natura difensiva, poiché tende a recepire i crescenti requisiti di patrimonializzazione e a governare il rischio, nella strategia di rinnovamento le banche dovranno andare all’attacco e riorientare la loro visione e organizzazione verso un nuovo modello che, in un ambiente sempre più digitale, vede la banca come aggregatore e piattaforma. Il futuro della banca si giocherà proprio sulla capacità di produrre valore attraverso la creazione di un ecosistema di fornitori, partner, clienti, soluzioni capaci di ridisegnare la user experience dei propri clienti e il proprio spazio (fisico e virtuale).
Le ricerche dicono che nel momento in cui il livello di fiducia verso il sistema bancario è al minimo, i consumatori del futuro (millennials) sono più propensi a premiare i modelli di business aperti e trasparenti, spesso promossi da istituzioni non bancarie come molte delle piattaforme di social lending che intermediano fondi in una logica peer to peer. Il P2P lending mette in relazione soggetti interessati a prestare denaro (“prestatori”) con altri (non solo individui, ma anche aziende accuratamente selezionate) meritevoli, che necessitano di risorse finanziarie. Questo sistema di finanziamento è stato sviluppato per la prima volta in Inghilterra dal sito web Zopa, che dal 2005 a oggi ha erogato 800 milioni di dollari in prestiti senza ricorrere al credito delle banche. Un mercato che sembra destinato a crescere anche in Italia. I dati raccolti da P2PLendingItalia dicono, infatti, che il trend dei nuovi prestiti erogati dalle otto piattaforme attualmente abilitate (delle quali solo sei attive al momento) è in forte crescita. Il 2016 ha chiuso con dati annuali record: oltre 64 milioni di euro di nuovi prestiti nel corso dell’anno, un aumento pari a +524% rispetto ai 10,3 milioni di euro del 2015. Tenendo conto che questo tipo di prestito non prevede garanzie significative a protezione del prestatore contro il rischio di fallimento del debitore, appare molto importante il dato del basso tasso di sofferenze: in BorsadelCredito.it sono pressoché inesistenti (sotto l’1%).
Che il social lending, non bancario, sia un competitor che fa sul serio lo si capisce anche da un recente studio in cui le piattaforme hanno provato a simulare sul loro portafoglio di impieghi gli stessi stress test che hanno subìto le banche europee. Lo ha fatto, in particolare, l’inglese Funding Circle, in parte spinta dal voto sulla Brexit, per dimostrare la sua resilienza anche in caso di uscita dalla Ue. Il risultato è stato che Funding Circle, diversamente da alcune note banche, il test lo ha passato a pieni voti, dimostrandosi resiliente anche senza avere una dotazione di garanzie paragonabile a quella di un intermediario finanziario tradizionale, il suo portafoglio esistente renderebbe infatti nello scenario più avverso.
Condivisione e disintermediazioni diventano così i driver della trasformazione del settore bancario anche in Italia, come dimostra il piano strategico di Unicredit che ha fra gli obiettivi anche quello di una Social Impact Bank oppure la scelta di Intesa Sanpaolo di ridisegnare lo spazio delle proprie filiali in una logica di condivisione: sharing ideas è infatti lo slogan usato dalla banca piemontese per comunicare una relazione che supera la logica dello “sportello” e si apre a un rapporto bidirezionale e ai feedback.
Che il social lending, non bancario, sia un competitor che fa sul serio lo si capisce anche da un recente studio in cui le piattaforme hanno provato a simulare sul loro portafoglio di impieghi gli stessi stress test che hanno subìto le banche europee. Lo ha fatto, in particolare, l’inglese Funding Circle, in parte spinta dal voto sulla Brexit, per dimostrare la sua resilienza anche in caso di uscita dalla Ue. Il risultato è stato che Funding Circle, diversamente da alcune note banche, il test lo ha passato a pieni voti, dimostrandosi resiliente anche senza avere una dotazione di garanzie paragonabile a quella di un intermediario finanziario tradizionale, il suo portafoglio esistente renderebbe infatti nello scenario più avverso.
Condivisione e disintermediazioni diventano così i driver della trasformazione del settore bancario anche in Italia, come dimostra il piano strategico di Unicredit che ha fra gli obiettivi anche quello di una Social Impact Bank oppure la scelta di Intesa Sanpaolo di ridisegnare lo spazio delle proprie filiali in una logica di condivisione: sharing ideas è infatti lo slogan usato dalla banca piemontese per comunicare una relazione che supera la logica dello “sportello” e si apre a un rapporto bidirezionale e ai feedback.
Ma dove già è esplicito l’effetto della condivisione del P2P è il sistema dei pagamenti. Il P2P payment è ormai parte dell’offerta core di molte banche che permette ai possessori di smartphone di scambiarsi somme, di dividere il conto al ristorante tra amici o raccogliere le quote per un regalo, il tutto recapitando gli importi (di valore limitato) in tempo reale al destinatario, che li può utilizzare immediatamente.
Tra le numerose soluzioni proposte da operatori tradizionali del mondo bancario la più diffusa è Jiffy di Sia (servizio a cui hanno già aderito oltre 20 gruppi bancari). In particolare, Ubi Banca attraverso questo circuito ha esteso il servizio in sola ricezione a beneficio delle organizzazioni non profit (P2B) in modo da consentire a queste di poter ricevere donazioni tramite lo smartphone. Infine la comunità. È impensabile immaginare una piattaforma di servizi finanziari che non conversa con la propria community di clienti e stakeholder, non solo incorporando piattaforme di crowdfunding come ilmiodono di Unicredit, Terzo Valore di Banca Prossima o la piattaforma di equity crowdfunding di Banca Etica, ma rendendoli protagonisti e influenti nei processi di intermediazione e informazione. È il caso di Fidor Bank, banca online al 100% che vuole affermarsi come leader europeo del community banking. Gli oltre 100 mila clienti di Fidor possono utilizzare il sito web della banca per gestire valute virtuali, verificare i tassi ed entrare in contatto con altri clienti del settore. Fidor Bank è la prima banca al mondo a offrire tassi di interesse sullo scoperto determinati dalle interazioni dei clienti sui social: maggiore è il numero di “Mi piace” su Facebook, minore è il tasso di interesse per il cliente. La partecipazione dei clienti all’interno della comunità viene premiata anche in altri modi, ad esempio tramite bonus in denaro per chi risponde a quesiti di carattere finanziario posti da altri clienti. Un esempio, questo, che ci fa pensare ad un futuro in cui gli “intermediari finanziari” non temono la disintermediazione perché sono in grado di incorporarla e valorizzarla facendosi piattaforma aperta. Una piattaforma capace di conversare con i propri stakeholder e di farsi misurare da rating sempre più reputazionali.