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16 Luglio 2020Articolo di Paolo Venturi, Direttore AICCON, pubblicato su Corriere Buone Notizie
Non bisogna farsi ingannare dal numero ancora poco significativo e dalla loro fragilità, perché il valore delle cooperative di comunità, non sta solo nei volumi economici ed occupazionali che generano (comunque significativo se parametrato ai territori in cui insistono), ma soprattutto nella valenza in termini di sviluppo integrale. È impossibile modellizzarle, perché prendono le sembianze delle comunità che le generano, ma potremmo definirle come comunità intraprendenti: istituzioni che accantonano le economie di scala, investendo intenzionalmente in se stesse e nel capitale (spesso dormiente) di un territorio in cui spazio e comunità fondano una diversa idea di “centralità”.
La crisi sanitaria di questi mesi le ha riportate al centro del dibattito, come elemento salvifico, utile a decongestionare la densità delle metropoli e come prospettiva di vita per i cittadini in fuga da una quotidianità frenetica. Là dove spesso lo Stato e il mercato hanno certificato il proprio fallimento, gli abitanti hanno alimentato produzioni che attraverso il turismo, l’agricoltura, la ristorazione, il welfare, la cultura sono diventate lievito e speranza attraverso nuovi progetti di comunità. Nonostante si cerchi di incasellarle dentro «business model ispirati dall’efficienza» queste istituzioni hanno dimostrato di poter prosperare solo dentro una dimensione mutualistica. Una mutualità comunitaria che si apre a processi di co-produzione e collaborazione con i cittadini, che tiene la porta aperta e che è disposta a ridefinirsi continuamente aggiungendo nuovi prodotti e servizi alla propria offerta.
L’innesco di questi processi, spesso contro-intuitivi, nasce dell’urgenza prodotta da uno shock (chiude il bar, la scuola, il forno), dalla paura di rimaner soli, dal desiderio di rigenerare uno spazio oppure da un scintilla di intraprendenza alimentata dai giovani. Non sono un “margine” ma il “nodo” di una diversa idea di territorio. Un’idea più contemporanea di quella che ha costruito la polarità e la dicotomia fra “centro e periferia”. Una politica nazionale le ha definite aree interne ma a ben vedere sono il centro di una diversa idea di sviluppo territoriale e urbano. Una prospettiva che per esser sostenuta ha bisogno di un ambiente, di una sua ecologia. Le cooperative di comunità vivono infatti della qualità dell’interdipendenza che son in grado di generare e dentro cui sono.
Le politiche capaci di valorizzare queste esperienze non sono quelle che celebrano la “restanza e la ritornanza” (V. Teti) ma che investono su produzioni e servizi di nuova generazione, sostenibili e innovativi, digitali e ad alto valore, politiche “capacitanti”, “incoraggianti” (A. Hirschman). Le cooperative di comunità infatti sono un dispositivo straordinario per trasformare beni privati e beni pubblici in beni comuni, ossia in soluzioni che costruiscono la propria sostenibilità intorno a “governance” che si spingono fino alla condivisione dei fini e non dei soli mezzi. Non serve scomodare il “community capitalism” per farle crescere, ma serve un radicale atto di sussidiarietà: queste istituzioni pioniere di un nuovo mutualismo, sono il meglio da cui partire per immaginare lo sviluppo endogeno dei territori.