
La nuova impresa sociale
13 Settembre 2017
Aria, acqua, terra e clima la salvezza dei beni comuni in mano alla società civile
11 Ottobre 2017Articolo di Paolo Venturi, Direttore AICCON
In Italia, con la riforma del Terzo settore, l’imprenditorialità orientata all’interesse generale potrà essere perseguita con forme associative, fondazionali, mutualistiche e for profit: uno spettro di opzioni che posiziona il nostro Paese come uno dei più avanzati nel mondo su questi temi. È il compimento di un processo che recupera la dimensione autentica della natura imprenditoriale: quella che riconosce la produzione come fatto sociale e la società come attore dell’innovazione sociale. Uscendo per un attimo dalle implicazioni tecniche e normative, tre sono gli ambiti su cui l’impresa sociale riformata può giocare un ruolo decisivo per lo sviluppo.
La prima opportunità nasce dall’ampliamento dei settori (26 quelli previsti dalla legge) su cui poter intraprendere «scambi di beni e servizi», ampliamento che apre alla filiera culturale, turistica, agricola e sportiva.
Il «fare impresa» diventa metodo per perseguire l’interesse generale in una pluralità di nuovi settori, mentre si incentiva «l’intersezione» fra il sociale e nuovi ambiti della nostra economia, creando le condizioni per una nuova generazione di filiere e distretti su base comunitaria e collaborativa.
È la prospettiva dell’abitare sociale, dell’agricoltura sociale, del welfare culturale ossia di nuovi mercati su cui sta crescendo una nuova domanda pagante, che sempre più è mossa dal «voto col portafoglio», come direbbe il professor Leonardo Becchetti, cioè esprime una preferenza su quei «beni» capaci di riqualificare il ben-essere ambientale e sociale della comunità in cui si vive. Nuove «economie di luogo» che possono diventare antidoto a quell’economia estrattiva, che raccoglie valore «in loco» e lo distribuisce poi «all’esterno».
Il secondo punto ha a che fare con le alleanze. La riforma dell’impresa sociale di fatto apre la governance ad una pluralità di soggetti (for profit e pubblici), a patto che questi non esercitino direttamente o indirettamente un controllo. Una multistakeholdership nuova che richiede sperimentazioni, ma che può favorire nuove logiche di partenariato (prima consegnate all’appalto o all’esternalizzazione) su sfide come quelle legate all’housing sociale, alla gestione e rigenerazione dei beni comuni, al welfare di comunità, alla nascita di filiere produttive capaci di creare inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.
L’ultima riflessione riguarda i giovani e il tema dell’innovazione. Credo che mettere a disposizione delle nuove generazioni un dispositivo imprenditoriale che nasce per produrre un dividendo sociale ed economico sia una «buona notizia». Bisogna infatti uscire dalla deriva tecnicista delle nuove imprese che nascono con l’unica finalità di essere vendute (exit). In questo senso l’impresa sociale riformata si pone come un dispositivo che, senza rinunciare all’innovazione tecnologica, produce valore generando occupazione. Saranno quindi il carattere sperimentale e promozionale gli ambiti su cui misurare l’impatto della riforma. Una responsabilità in cui saranno impegnati non solo la cooperazione e il Terzo settore, ma anche le scuole e le Università, oggi decisive nel riclassificare il senso e il valore dell’«essere imprenditore».
Articolo pubblicato su Corriere Buone Notizie (3 ottobre 2017)