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Quale spazio ha e potrebbe avere l’impresa sociale nell’ambito dell’Unione europea? Non rischia di restare confinata su questioni marginali e complementari in un contesto fatto di grandi concentrazioni industriali in lotta tra di loro per non soccombere?
L’impresa sociale, ed in particolare l’economia ad essa connessa, riveste un ruolo centrale in Europa poiché è in grado di garantire occupazione a quasi 14 milioni di persone (6,3% della popolazione attiva). In Europa son ben 2,8 milioni le organizzazioni che generano economia a finalità sociale (e non sto parlando di Responsabilità sociale dell’impresa), sono 232 milioni di soci di cooperative, mutue e affini e ben 82 milioni di volontari.
Un fenomeno gigantesco …
È proprio così, per questo è corretto definirla una infrastruttura sociale, economica e occupazionale rilevantissima la cui marginalità deriva dal riduzionismo insito nella lettura che le istituzioni politiche ed economiche fanno di ciò che è valore, ma soprattutto della tendenza a separare economico e sociale.
Si spiega in tal modo il pregiudizio che accompagna queste realtà?
La marginalità non sta tanto nel peso specifico dell’impresa sociale europea. Modello a cui anche il for profit sta guardando, basti pensare alla crescita delle B-Corp (imprese orientate a produrre benefici per la società e la biosfera, ndr) oppure delle imprese ad impatto sociale. La sottovalutazione non si spiega neanche con una minor efficienza (nel Regno Unito sono più redditizie delle Pmi e in Italia sono le più resilienti) quanto nell’incapacità ad includere queste imprese dentro la ricetta dello sviluppo economico.
Come vanno considerate tali imprese?
Di solito, se ne parla solo come di soggetti orientati all’inclusione mentre l’impresa sociale è la più grande innovazione in termini di “produzione”; un modo di produrre diverso tanto nelle motivazioni, quanto nei fini.
Cosa comporta questo modo innovativo di produrre?
L’economia sociale deve giocare la partita dello sviluppo. Ma non con gli stessi strumenti delle grandi piattaforme e concentrazioni industriali, poiché è orientata a generare e condividere valore e non solo estrarlo (e per questo motivo deve avere indicatori diversi). In questo senso si deve riconoscere che se l’Europa è oggi leader mondiale per la qualità della vita, lo si deve in gran parte anche all’economia sociale e a tutto il mondo del non profit.
Ma di che numeri parliamo, alla fine?
Come detto, non si tratta di un fenomeno destinato a svolgere un ruolo di minoranza profetica o di testimonianza. Tutt’altro. Oltre al facile esempio di “casa nostra” dove la cooperazione sociale garantisce servizi a oltre 7 milioni di persone, basti pensare che in Germania le imprese di comunità (abitanti, utenti) hanno assunto ormai una posizione di leadership nella produzione e distribuzione di energie rinnovabili, producendo quasi i 50% di energia “pulita”. Casi esemplari che ci dimostrano come una diversa governance dei beni comuni non sia una utopia e che in gioco non ci sia solo la sostenibilità, ma anche un nuovo paradigma economico che sostiene la crescita. Un paradigma che va oltre il dualismo Stato-Mercato.
Qual è tale peculiarità?
È qualcosa che ha a che fare con la democrazia, che è un bene fragile, che va difeso e su questo l’economia sociale è uno strumento prezioso proprio perché alimenta biodiversità e mutualismo. Non è un caso che la cooperazione sia nata in Europa e la filantropia in Usa. La cultura economica europea nasce da un agire profondamente sociale, ossia legato alla società che lo genera.
In che senso questo discorso riguarda anche la quarta rivoluzione industriale?
Di solito si fa sempre l’errore (culturale) di considerare il sociale come “il rammendo” alle distopie della tecnologia. Il volontariato e il terzo settore vengono visti come sostituti-funzionali del Pubblico (basti pensare a povertà e inclusione sociale) per riparare danni “sociali”; il non profit viene usato come un antidoto agli effetti negativi che la tecnologia può generare (es. perdita di lavoro, disuguaglianze).
E invece com’è la situazione?
Proprio il nuovo connubio tra sociale e tecnologia può aumentare l’impatto sociale del non profit. Si tratta di guardare alla quarta rivoluzione industriale come una grande opportunità d’innovazione per nuove soluzioni di welfare comunitario, per offrire servizi a basso costo e ad alto impatto per la cura, per stimolare nuove forme di partecipazione dal basso, per generare nuove economie sostenibili. Dobbiamo essere coraggiosi ed evitare posizioni difensive o di chiusura.
Quali riforme sono necessarie nel contesto europeo?
Ben 15 Paesi negli ultimi 5 anni hanno promosso normative di riconoscimento e promozione dell’economia sociale, proprio mossi dalla consapevolezza che sviluppo e welfare vadano ricomposti. A questo si aggiunge l’approvazione di 20 principi (7 nov. del 2017) che compongono “il pilastro sociale europeo”.
In cosa consiste il pilastro sociale europeo?
Il pilastro europeo dei diritti sociali mira a creare nuovi e più efficaci diritti per i cittadini, strutturati in tre categorie: pari opportunità e accesso al mercato del lavoro, condizioni di lavoro eque e protezione sociale e inclusione. Sfide su cui occorre cambiare paradigma. Queste sono ancora enunciazioni di principio che dovranno poi esser declinate in azioni concrete.
Quali sono queste azioni concrete?
Azioni che non possono solo limitarsi ad individuare fondi da redistribuire, ma che devono portare la dimensione “sociale” nel cuore delle scelte economiche, tecnologiche e di coesione dell’Europa. Nel prossimo settennato (2021-2027) l’Europa è chiamata a fare scelte che impatteranno sulle future generazioni. Per l’Italia diventa fondamentale costruire anche un sistema di alleanze capaci di aumentare il peso dell’economia sociale in Europa.
E chi sono i vostri alleati su questo fronte?
Ad oggi questa è una casella vuota poiché le alleanze sono più sul fronte commerciale o protezionistico, piuttosto che su quello della valorizzazione di uno sviluppo inclusivo e sostenibile. Da questo punto di vista il tema delle disuguaglianze è esemplare: per contrastare i monopoli e l’èlite della finanza non bastano misure assistenziali, serve un lavoro profondo su come si produce e redistribuisce ricchezza.
Ma esistono almeno dei percorsi già avviati?
Una grande partita per l’economia sociale si giocherà anche sulle nuove “infrastrutture sociali”. Lo studio europeo coordinato da Prodi ci dice che in Europa c’è un deficit di investimenti in infrastrutture sociali pari a circa 150 miliardi all’anno. Il tema delle infrastrutture sociali è un tema decisivo per la coesione dell’Europa, poiché legato al tema delle nuove vulnerabilità, dell’invecchiamento, dell’abitare, ecc… Su questa nuova generazione di investimenti, l’imprenditorialità sociale può essere un partner decisivo.
In che modo?
Occorre costruire una prospettiva in cui oltre ai fondi pubblici, si possano includere i crescenti investitori orientati all’impatto sociale. Negli ultimi due anni, l’impact investing ha messo a segno un vero e proprio boom, passando da 3 a 52 miliardi di euro investiti in Europa. Una fetta significativa è riconducibile proprio a iniziative di housing sociale e ad infrastrutture socio-sanitarie.