
Il ruolo della cooperativa di comunità
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Non c’è mercato senza dono
2 Dicembre 2016Articolo di Paolo Venturi, Direttore di AICCON.
La Legge Delega di riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale, licenziata nei mesi scorsi, contiene alcuni elementi innovativi estremamente importanti per il mondo dell’imprenditorialità sociale italiana. Anzitutto, all’interno della ratio che ha guidato l’iter normativo è possibile individuare un tentativo forte di posizionare la dimensione imprenditoriale alla base degli articoli di riforma, non esclusivamente riguardanti l’impresa sociale, ma anche altre soggettualità. In tal senso, la dimensioni imprenditoriale diventa il perimetro all’interno del quale produrre contemporaneamente valore economico e sociale.
L’impresa sociale diventa, quindi, soggetto imprenditoriale inclusivo, perché fa della comunità un asset strategico fondamentale e imprescindibile per la buona riuscita della propria attività. La riforma va, dunque, in questa direzione, ovvero a supporto di una fioritura all’interno del cd. Not-for-profit di nuove forme di imprenditorialità, che sempre più attraggono capitale umano tra le nuove generazioni. Si pensi, ad esempio, ai millennials, i nati tra il 1980 e il 2000, oggetto di numerose ricerche sia in Italia che all’estero, che hanno espresso una propensione maggiore delle generazioni precedenti imprenditorialità innovativa e alla fruizione della sharing economy e che, quindi, ricercano sia nella quotidianità che nell’ambito lavorativo risposte in cui la relazione e la socialità siano fondative.
La bontà dell’impianto della riforma risiede proprio in questo, ossia nella capacità di rispondere alle esigenze espresse dalla nostra società e, in particolare, dalle nuove generazioni attraverso la promozione di una biodiversità economica che incentiva anche nel nostro paese, da un lato, un processo di ibridazione tra non profit e for profit, che in Italia ha iniziato a dare i primi frutti (si pensi alle “società benefit” introdotte nel nostro ordinamento con l’ultima Legge di Stabilità) e, dall’altro, la nascita e lo sviluppo di un ecosistema di imprese sociali sempre più numeroso e solido. Rispetto a quest’ultimo punto, infatti, a “portare acqua al fiume” dell’impresa sociale contribuiscono almeno tre “immissari”: primo, le imprese sociali già esistenti ex d.lgs. n. 155/2006; secondo, le cooperative sociali, in particolar modo quelle di più recente costituzione, già da tempo abituate a operare in settori diversi rispetto a quelli maggiormente legati alla tradizione di attività della cooperazione sociale; terzo, quella parte di mondo dell’associazionismo che presenta evidenti tratti di imprenditorialità delle proprie attività, non ancora perimetrata formalmente all’interno dell’imprenditorialità sociale.
Un ulteriore elemento distintivo dell’impianto della riforma risiede nell’orientamento alla valutazione dell’impatto generato dai soggetti del Terzo settore, con l’obiettivo di contribuire al passaggio da una cultura tradizionalmente basata sulla rendicontazione delle attività di tali realtà ad una in grado di cogliere gli elementi di trasformazione del loro operato rispetto alla comunità e ai territori di riferimento. Orientare, misurare e valutare ciò che la propria organizzazione fa in termini di impatto implica un cambio di prospettiva e di orizzonte temporale che, soprattutto per le imprese sociali, è utile a riorientare anche strategicamente il proprio operato e, di conseguenza, a comprendere i propri fabbisogni (economici, finanziari, in termini di capitale umano, …).
Per perseguire gli obiettivi appena enunciati, la riforma ha in primis riformulato la definizione di impresa sociale, all’interno della quale il principio di multistakeholdership viene ampiamente ribadito e declinato, laddove l’impresa sociale è chiamata a favorire “il più ampio coinvolgimento dei dipendenti, degli utenti e di tutti i soggetti interessati alle sue attività”. Il principio di riferimento che dovrebbe guidare l’individuazione delle modalità di coinvolgimento degli stakeholder non è solo quello della “democraticità” quanto piuttosto quello di accountability – in parte garantito dall’obbligatorietà del bilancio sociale. Tale principio si dovrebbe sviluppare in particolare lungo tre direzioni individuando strumenti:
- informativi che rendano trasparenti e fruibili a tutti gli stakeholder le informazioni relative all’impresa sociale;
- che mettano gli stakeholder nelle condizioni di esercitare l’opzione di voice, ovvero esprimere la propria opinione sulla base delle informazioni acquisite;
- volti ad incentivare processi deliberativi, in cui gli stakeholder concorrano alla definizione delle strategie dell’impresa stessa.
Inoltre, in tale ottica, ben venga la possibilità data ad imprese private e ad amministrazioni pubbliche di assumere cariche sociali negli organi di amministrazione delle imprese sociali, salvo il divieto di assumerne la direzione, la presidenza e il controllo; tuttavia, andrebbe esplicitato che il divieto di controllo dovrebbe essere sia diretto che indiretto, ovvero tramite interposta persona.
Un’ulteriore novità introdotta dalla riforma risiede nell’ampliamento dei settori di attività di interesse generale in cui le imprese sociali potranno operare. Ad oggi, i settori in cui è possibile trovare le imprese sociali si estendono rispetto a quelli individuati dal D.lgs. 155/2006 e ricomprendono anche settori quali: commercio equo e solidale, servizi per il lavoro finalizzati all’inserimento dei lavoratori svantaggiati, alloggio sociale (soprattutto, ma non solo, nei confronti di persone immigrate) e microcredito. In aggiunta, in ottica prospettica è possibile prevedere uno sviluppo delle imprese sociali anche in settori in cui ad oggi è possibile individuare grandi soggetti associativi che sempre più necessitano di un “salto” verso l’imprenditorialità sociale per poter crescere pur rimanendo legati alla “comunità” come dimensione costitutiva. Rispetto al tema dei settori operativi delle imprese sociali, necessità stringente, che i decreti attuativi dovranno affrontare, è quella di individuare una formula che permetta l’aggiornamento continuo dei settori, che quasi annualmente dovranno essere ampliati, nonché di prevedere la possibilità di imprese sociali operanti in una pluralità di ambiti, in risposta ad una domanda di servizi sempre più complessa e che necessita di un’offerta intersettoriale e multiservizio.
Il processo di ibridazione già menzionato si concretizza anche nella previsione di forme di remunerazione del capitale sociale che assicurino la prevalente destinazione degli utili al conseguimento dell’oggetto sociale, da assoggettare a condizioni e comunque nei limiti massimi previsti per le cooperative a mutualità prevalente, previsione che implica la necessità di definire puntualmente l’attività rispetto al quale si calcola la prevalenza dell’oggetto sociale, necessaria per stabilire la destinazione degli utili.
La riforma prevede, inoltre, la ridefinizione delle categorie di lavoratori svantaggiati tenendo conto delle nuove forme di esclusione sociale, anche con riferimento ai princìpi di pari opportunità e non discriminazione di cui alla vigente normativa nazionale e dell’Unione europea, prevedendo una graduazione dei benefìci finalizzata a favorire le categorie maggiormente svantaggiate. Le imprese sociali ormai da anni, infatti, operano anche con categorie di lavoratori svantaggiati “non certificati” perché non previste dalla normativa italiana (l. n. 381/1991). Infatti, il numero di persone che appartengono agli ambiti di vulnerabilità (contenuti in particolare nella normativa europea, dove viene considerata svantaggiata qualsiasi persona che abbia difficoltà a entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro) incoraggiano la nascita e lo sviluppo delle imprese sociali. Ciò a cui bisogna prestare attenzione, tuttavia, è la necessità di contrastare la realizzazione di un “effetto di spiazzamento” di queste categorie di svantaggio rispetto a quelle contenute nell’attuale normativa italiana (l. 381/1991) che includono soggetti con disabilità psico-fisiche che spesso trovano nelle imprese sociali l’unica modalità di inserimento nel mondo del lavoro.
Complessivamente, è possibile sostenere che la riforma e, a seguire, i decreti attuativi della stessa, perseguono l’obiettivo di introdurre elementi di innovazione che “aprono” verso l’esterno ovvero sostengono quei processi di ibridazione tra l’impresa sociale e le altre forme istituzionali con i quali essa si rapporta. Processi di innovazione che passano anche dalle novità in materia di misure fiscali e sostegno economico e, nello specifico, nella previsione per le imprese sociali: della possibilità di accedere a forme di raccolta di capitali di rischio tramite portali telematici, in analogia a quanto previsto per le start-up innovative; di misure agevolative volte a favorire gli investimenti di capitale – che andrebbero soprattutto orientate a supporto delle realtà più di recente costituzione che notoriamente presentano una struttura patrimoniale maggiormente debole nel confronto con soggetti più maturi (nel 2014, la media del capitale sociale delle cooperative sociali nate negli ultimi 3 anni è pari a 8.475€ contro i 42.936€ delle restanti cooperative sociali attive); dell’introduzione di meccanismi volti alla diffusione dei titoli di solidarietà e di altre forme di finanza sociale finalizzate a obiettivi di solidarietà sociale. Rispetto a quest’ultimo punto, la necessità espressa dalla riforma è quella di puntare di più su modelli come quelli sottostanti i celebri social impact bond e i Contratti a Impatto, esperienza messa in campo dal Governo francese, strumento con il quale, a fronte del raggiungimento di obiettivi misurabili, la pubblica amministrazione intende rimborsare gli investitori privati che mettono a disposizione capitali per progetti in ambito sociale. Più in generale, si tratta di abilitare e incentivare strumenti volti a favorire le partnership pubblico-privato in ambiti quali il carcere e le politiche di prevenzione.
Infine, la riforma prevede la nomina, in base a princìpi di terzietà, fin dall’atto costitutivo, di uno o più sindaci allo scopo di monitorare e vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto da parte dell’impresa sociale, sul rispetto dei princìpi di corretta amministrazione, anche con riferimento alle disposizioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile. In virtù di quanto scritto all’art. 2, comma 1, lettera d, del DDL, ovvero che finalità dello stesso sia quella di semplificare la normativa vigente, sarà opportuno che i decreti attuativi applichino tale principio di semplificazione anche nello sviluppo degli strumenti di monitoraggio e vigilanza delle imprese sociali, soprattutto per quelle di piccole dimensioni o che nascono dall’evoluzione di soggetti precedentemente afferenti al mondo dell’associazionismo, affinché si creino le condizioni per agevolare, qualora necessario, una trasformazione di soggetti afferenti al mondo associativo in imprese sociali quali forme più opportune di gestione di attività di utilità sociali con un forte orientamento al mercato.
In conclusione, la sfida cui tenta di far fronte questa riforma risiede nello sforzo di incentivare e facilitare nuovi meccanismi di imprenditorialità e innovazione sociale dove il fine ultimo è quello di generare occupazione e benessere. L’innovazione tecnologica, seppur auspicabile, da sola non può riuscire a rispondere a tale sfida, anzi. Essa va, dunque, accompagnata da processi di innovazione sociale in grado di produrre nuovi modelli organizzativi inclusivi, come quelli dell’impresa sociale.
Articolo pubblicato sul numero di ottobre di Vita.