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Serve quindi il coraggio, oltre che l’intelligenza, di andare oltre il modello di organizzazione del lavoro pensato all’epoca della seconda rivoluzione industriale.
Occorre superare un modello centrato sul postulato della rigida divisione e specializzazione fra chi dirige e chi esegue; tra chi è autorizzato a pensare e chi è addetto a mansioni routinarie e alienanti. Non si fa fatica a comprendere come l’incapacità della politica e di molte imprese a comprendere il portato di questo passaggio, sia all’origine dell’impossibilità di realizzare la libertà del lavoro e quindi a favorire la generazione di lavoro. Quest’ultima, infatti, non è compatibile con nessuno dei due principali schemi organizzativi per gestire il processo lavorativo. Né con quella che idealizza l’organizzazione d’impresa come se fosse un microcosmo basato sulla logica meritocratica; né con quello della gerarchia, basata su funzioni e incentivi spesso strumentali.
Un’attività lavorativa è in grado di fare la differenza, quando riesce ed è messa nella condizione di far emergere la motivazione intrinseca della persona che la compie. E’ noto infatti, che la qualità che un individuo può esprimere nel suo lavoro è di due tipi: codificata e tacita. La prima è la qualità che può essere accertata, sulla base di protocolli e codici previamente fissati, anche da una parte terza che può sanzionare, se del caso, comportamenti devianti o opportunistici. Tacita, invece, è la qualità di una prestazione lavorativa che non è verificabile da parti terze. Ora, mentre per ottenere un’elevata qualità codificata si può intervenire con adeguati schemi di incentivo (monetari o non), per conseguire livelli elevati di qualità tacita non c’è altra via che quella di far leva sulla motivazione intrinseca del lavoratore.
Ecco perchè la motivazione diventa la chiave principale per la generazione di valore; le conoscenze tacite assumono così il ruolo di risorsa più rilevante dentro un processo e da esse derivano le capacità di innovare.
La creazione di valore ha perciò bisogno di persone, relazioni e significati.
Dobbiamo cessare di separare dissennatamente la dimensione soggettiva e la dimensione oggettiva del lavoro; è necessario costruire occasioni concrete di libertà e la forma organizzativa verso cui tendere forse è quella che, come diceva prima Olivetti e poi Mintzberg, vede l’impresa come una “comunità” (Mintzberg – “Rebuilding Companies as Communities”, Harvard Business Review, Agosto, 2009).
Note bibliografiche